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MEDIO ORIENTE / Obama contro Netanyahu tifosi liberal a Washington

di Sergio Luzzatto

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18 marzo 2010

Dopo il clamoroso fallimento della visita in Israele del vicepresidente americano Biden, gli analisti internazionali concordano nel giudicare particolarmente grave la crisi presente delle relazioni fra gli Stati Uniti e lo stato ebraico: forse la più grave dal 1967, cioè dalla guerra dei Sei giorni e dall'occupazione israeliana dei territori palestinesi.
Come sempre accade, le dinamiche di politica estera si intrecciano a quelle di politica interna. La gravità della crisi diplomatica risulta accentuata dalle difficoltà domestiche di entrambi i premier, Barack Obama e Benjamin Netanyahu. Obama ha perso alcuni margini di manovra per la maggioranza democratica al Senato e si trova, in generale, sotto il possibile schiaffo delle prossime elezioni legislative di mid-term. Netanyahu fatica a sottrarsi all'ipoteca politica che pure gli ha consentito, l'anno scorso, di riprendere in mano dopo un decennio le redini del governo di Tel Aviv. Fin da quando il suo partito, il Likud, non ha trovato un'intesa elettorale con Tzipi Livni e il centro di Kadima, Netanyahu si è consegnato agli alleati di estrema destra, intrattabili sulla questione delle colonie e ancor più su quella di Gerusalemme est.

Ma proprio da questa situazione di difficoltà potrebbe derivare, paradossalmente, un'opportunità per Obama e dunque, di riflesso, la possibilità di uno sbocco dell'impasse diplomatica mediorientale. Potrebbe derivare cioè la tentazione, per Obama stesso, di trasformare il limite in una risorsa: marcando una soluzione netta di continuità rispetto a quarant'anni di arrendevolezza di ogni governo americano nei confronti di Israele.
La tentazione di rompere gli indugi - a costo di un vero e proprio scontro con Netanyahu - sarebbe il frutto di una somma di fattori concomitanti. Tra questi, la difficile intesa personale (secondo alcuni, un'antipatia quasi epidermica) fra il premier israeliano e il segretario di stato americano, Hillary Clinton. E la crescente impazienza verso Israele da parte del Pentagono: se è vero (come ha argomentato recentemente la rivista Foreign Policy, in un articolo ripreso ieri dal Sole 24 Ore) che gli strateghi di Washington temono sempre più gli effetti destabilizzanti, sull'intero Medio Oriente, di una rinnovata timidezza Usa verso Israele.

La tentazione di rompere gli indugi potrebbe venire ad Obama anche dagli sviluppi del rapporto fra l'amministrazione democratica e la diaspora statunitense. Perché l'autentico fatto nuovo di quest'ultimo paio d'anni è la nascita di un polo politico liberal della diaspora. Un polo che non vuole più costringere gli ebrei americani dentro il ruolo tradizionale di elettori del partito democratico; un polo che intende contare anche nella capitale, a Washington, valendo da contrappeso rispetto al polo conservatore della diaspora. Quest'ultimo risulta perfettamente rappresentato, ormai da decenni, dall'influentissima lobby chiamata Anti-Defamation League. Il nuovo polo liberal si è andato invece organizzando intorno al gruppo di pressione denominato J-Street.

Il nome J-Street allude a una via notoriamente mancante nella griglia topografica di Washington; ma allude anche, evidentemente, alla necessità di portare nella capitale la voce di un mondo ebraico (J-ewish) che non si sente rappresentato dai conservatori della Anti-Defamation League. È appunto il mondo dell'intellighenzia ebraica progressista: il mondo di New York, potremmo dire, che cerca di vincere la sua spocchia intellettualistica e prova a sbarcare, armi e bagagli, nella bassa cucina di Washington. Portandovi un giudizio severo sulla maniera in cui, da quarant'anni, ogni volta che Israele ha alzato la voce gli Stati Uniti hanno obbedito.

Dopo il fallimento della missione mediorientale di Joe Biden, le teste d'uovo di J-Street sono saltate sull'occasione per aumentare la loro pressione sopra l'amministrazione e il Congresso. In particolare, hanno promosso una raccolta di firme in calce a un documento dove si afferma che «soltanto un amico può dire la verità più scomoda», e dove si invita il governo Obama a trasformare l'attuale crisi diplomatica in un'opportunità per lavorare concretamente alla soluzione dei "due stati" in Palestina: lo stato ebraico, che già c'è, e lo stato palestinese, cui finora Israele ha vietato di esistere.

Naturalmente, non basteranno certo le 18mila firme raccolte in pochi giorni da J-Street per modificare una dinamica - quella dell'arrendevolezza americana verso Israele - che si è consolidata nei decenni al punto da sembrare un fossile. Eppure, la crescente mobilitazione dell'intellighenzia ebraica liberal potrebbe esercitare, nel prossimo futuro, un'influenza effettiva sopra Obama e la sua amministrazione: magari attraverso "facilitatori" come il senior advisor del presidente, David Axelrod, altrettanto legato alle proprie origini ebraiche che indignato per l'affronto subìto da Biden durante la visita in Israele.

18 marzo 2010
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